Fondi interprofessionali: ruolo ed evoluzione – Executive summary

(1) Le ragioni di una ricerca e lo scenario giuridico-istituzionale di riferimento
L’obiettivo generale della presente ricerca è, negli intenti degli Organi di gestione del Fondo, quello di individuare spunti di riflessione sullo sviluppo nei prossimi anni del ruolo di For.Te. e dei Fondi interprofessionali in Italia.
Gli obiettivi specifici della ricerca sono sviluppati attorno alle cinque aree di intervento indicate dalle Linee guida per la formazione nel 2010, al fine di valutare le eventuali e possibili direzioni delle attività finanziate e progettate dal Fondo For.Te., a partire dai rapporti pubblicati sulle attività e dai risultati dal Fondo stesso conseguiti.
Superata la fase di start up, si apre un processo di consolidamento, che impone nuove responsabilità e un coinvolgimento più stretto dei Fondi nello sforzo comune di disegnare il futuro del Paese. A questa sfida non intende sottrarsi For.Te., uno dei più importanti Fondi italiani, per numero di aziende aderenti e di lavoratori; il più rappresentativo del settore Terziario – Commercio, Turismo, Servizi, Logistica, Spedizioni, Trasporti – con una presenza crescente di imprese che operano in altri settori economici.
L’intesa del 17 febbraio 2010 sottoscritta da Governo, Regioni e da tutte le Parti sociali, contenente le Linee guida per la formazione nel 2010, detta i criteri e gli orientamenti per la gestione delle risorse (pubbliche e private) destinate alla formazione. Da un lato, l’accordo risponde alla necessità di trovare strumenti nuovi e promozionali che offrano a lavoratori e imprese tutele certe e concretamente spendibili nel mercato per affrontare l’incertezza economica e occupazionale nel breve termine. Dall’altro lato, prende atto delle criticità del modo di progettare, erogare e gestire la formazione continua oggi in Italia (secondo quanto ampiamente documentato, tra gli altri, dai lavori della c.d. «Commissione De Rita» nel Rapporto sul Futuro della Formazione in Italia del novembre 2009).
Le Linee guida portano a compimento, nell’ambito di una intesa istituzionale di livello nazionale su una materia di competenza prevalentemente regionale, l’eredità di una riflessione iniziata in Italia negli anni Novanta, con il Protocollo Giugni del 1993 e il Patto del lavoro del 1996, che individuava nella formazione delle persone la vera scommessa per la modernizzazione del mercato del lavoro e la produttività del lavoro, e identificava nel dialogo sociale l’arena privilegiata – ma, potremmo dire, la costante istituzionale – per lo sviluppo di un solido sistema di formazione continua in chiave partecipativa e bilaterale.

Del resto, la recente evoluzione del quadro giuridico-istituzionale di riferimento – con le novità in materia di ammortizzatori sociali e di apprendistato, e con l’estensione dell’efficacia delle Linee guida al 2011 e al 2012 – suggerisce un nuovo potenziale rafforzamento e ampliamento, oltre che una maggiore articolazione del ruolo dei Fondi Interprofessionali, nella prospettiva di una virtuosa integrazione tra il mercato del lavoro e la formazione di tutte le persone. I Fondi potrebbero cioè rappresentare la sede per eccellenza per sostenere la progettazione di percorsi formativi efficaci e dinamici, basati sulla effettiva domanda di formazione delle imprese, nei settori e nei territori, finalizzati alla preparazione – anche in assetto lavorativo – delle persone ai nuovi mestieri e al cambiamento.
Le novità normative tratteggiano il percorso per realizzare un nuovo modo di fare formazione, sempre più legato agli esiti dell’apprendimento e alle competenze dei lavoratori, e meno alle procedure formali e ai luoghi di erogazione dei servizi di formazione. L’impresa e i suoi interlocutori, in primis le Parti sociali, acquistano protagonismo nello sviluppo dell’apprendimento delle persone lungo tutto l’arco della vita così come nella definizione dei profili professionali e delle competenze che essi richiedono, settore per settore, territorio per territorio.
In tal senso, il legislatore individua – in termini inequivocabili nel recente Testo Unico dell’apprendistato (art. 6, commi 2 e 3) – nella contrattazione collettiva la sede privilegiata per le regolamentazione e la disciplina degli aspetti della formazione delle persone per il lavoro. La direzione è quella di un mercato del lavoro dinamico, in cui le transizioni occupazionali siano tanto frequenti quanto fluide e sicure per i lavoratori e le loro famiglie, e in cui le competenze di ciascuna persona siano riconosciute e valorizzate in funzione anche della produttività delle imprese.
Un tassello di questo percorso è l’ipotesi di adattare diversi sistemi di inquadramento e classificazione del personale, perché risultino sempre meno standardizzati, maggiormente basati sulla logica delle competenze dei lavoratori, per la valorizzazione delle professionalità, del merito e dei talenti individuali: i contratti collettivi dovrebbero meglio fornire i parametri per formare i lavoratori a livelli di eccellenza e sviluppare le competenze rilevanti per le professionalità del settore di riferimento. Ciò in modo da individuare, non solo le abilità o conoscenze di mestiere in senso stretto, ma anche le competenze che arricchiscono la prestazione lavorativa in termini di responsabilità, autonomia, capacità relazionale, ecc.
Tali parametri sono oggi rappresentati dai cosiddetti “standard professionali”, ossia “referenziali”, criteri minimi e flessibili per definire una professionalità in termini di competenze: se la nuova concezione di “formazione” poggia su due pilastri – la progettazione alla luce dei fabbisogni professionali e la validazione delle competenze ex post – risulta necessario disporre di punti di riferimento condivisi e leggibili da tutti gli attori, per progettare e valutare la formazione, con buone garanzie di qualità ed esito del processo formativo.
La complessa materia degli standard è stata recentemente regolata dal decreto legislativo del 14 settembre 2011, n. 167 recante il già citato Testo Unico dell’apprendistato che, all’articolo 6 e ben al di là della sola formazione in apprendistato, distingue a livello di sistema nazionale gli standard professionali, gli standard formativi e gli standard di certificazione delle competenze. Le Parti sociali saranno, in particolare, chiamate alla definizione e all’utilizzo concreto degli standard professionali, quali criteri per la predisposizione e la verifica dei percorsi formativi volti a trasmettere un mestiere.
In questa logica, i Fondi interprofessionali e gli Enti bilaterali possono contribuire alla revisione dei sistemi di classificazione e inquadramento professionale contenuti nei contratti collettivi, in quanto collettori della domanda della formazione necessaria e delle esigenze di lavoratori e imprese per sviluppare le competenze strategiche per il settore.
In tal senso, i Fondi interprofessionali e gli Enti bilaterali di settore si avvierebbero a diventare veri e propri agenti in grado di muoversi con propri strumenti, in un mercato del lavoro sempre meno legato alla idea di “posto” e sempre più basato sulle professionalità.
Il “diritto alla formazione continua” deve diventare uno dei diritti fondamentali di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla condizione contrattuale in cui si trovino. È il preludio a un nuovo modello di welfare, che integra politiche attive e politiche passive per il lavoro, mettendo al centro la persona e i suoi progetti di vita. In tal senso, le Linee guida auspicano «una più efficiente sinergia tra le risorse pubbliche e quelle private per la formazione con l’obiettivo di sostenere l’occupabilità delle persone nell’ambito degli interventi che si renderanno necessari per salvaguardare il capitale umano», oltre che una particolare attenzione alla «coerenza tra il ricorso agli ammortizzatori sociali, concordato nelle sedi proprie, e il ricorso alle pratiche di politica attiva».
Il processo così avviato condurrebbe quindi a una necessaria riflessione sull’identità dei beneficiari della formazione finanziata dai Fondi interprofessionali: il sistema paese ha bisogno di ridisegnare il panorama di strumenti, meccanismi di governance e politiche per attivare la leva della formazione (continua), non soltanto a beneficio di chi è attivamente coinvolto nel mercato del lavoro, ma anche per chi ne è temporaneamente escluso o sospeso, come gli inoccupati, i disoccupati, i lavoratori stagionali, i lavoratori in mobilità o cassintegrati ovvero, come previsto dal decreto legge n. 138 del 2011, anche gli apprendisti e i lavoratori coordinati e continuativi senza vincolo di subordinazione.

(II) Contenuti e obiettivi della ricerca
Date queste premesse, la ricerca si è proposta di offrire spunti ed evidenze, tratte dal quadro nazionale e internazionale, per riflettere sugli spazi di operatività aperti dalle Linee guida del 2010 e dalla evoluzione del quadro normativo-istituzionale, al fine di capire se, e in che termini, ci siano opportunità per ridefinire le funzioni e il funzionamento dei Fondi interprofessionali per la formazione continua in Italia, con particolare riferimento al settore Terziario. Il lavoro ha preso le mosse dalla ricostruzione del quadro internazionale e nazionale sui temi oggetto della ricerca, attraverso lo studio comparato dei diversi ordinamenti giuridici, a partire da quello italiano, e delle materie oggetto delle aree di intervento identificate dalle Linee guida, di interesse del Fondo For.Te.
In particolare, la parte introduttiva del Rapporto è dedicata alla analisi delle Linee guida della formazione nel 2010, che si articolano in cinque punti.
Primo, progettare la formazione alla luce della reale domanda di competenze sui territori, da intercettare grazie a una sistematica rilevazione dei fabbisogni professionali e formativi.
I Fondi potrebbero contribuire alla raccolta di informazioni sui mestieri e sulle competenze– descritte qualitativamente – che le imprese richiedono nel breve periodo, convogliando le informazioni ai livelli centrali di governance e condividendole con il sistema formale di istruzione e formazione, in una logica di integrazione e dialogo.
Secondo, adottare un approccio “per competenze” valorizzando gli esiti dei processi di apprendimento, invece del tradizionale modello “scolasticistico” di formazione svolta in aule e per discipline. Tale impostazione sarebbe propedeutica a un corretto uso del Libretto formativo del cittadino, della cui gestione e compilazione gli stessi Fondi potrebbero, in prospettiva, essere incaricati, in quanto conoscitori delle competenze distintive di settore. Infine, l’approccio per competenze dovrebbe essere recepito nella progettazione dei percorsi di apprendistato, quale contratto per eccellenza per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro.
Terzo, la formazione dovrebbe avvicinarsi all’impresa, per svolgersi in assetto lavorativo, abbandonando, se e quando necessario, le aule, al fine di assumere una dimensione più concreta e permettere lo sviluppo di abilità e competenze direttamente spendibili in azienda.
Quarto, le azioni per la formazione degli adulti dovrebbero rafforzarsi e diversificarsi, coinvolgendo in attività di tutoraggio anche i lavoratori temporaneamente sospesi, con l’intento di non disperdere le professionalità e di riconoscere le competenze sviluppate grazie all’esperienza sul lavoro.
Infine, la formazione – progettata a partire dalla domanda, realizzata prevalentemente in impresa, gestita “per competenze” e resa così fruibile a tutti i lavoratori adulti – necessita di rigorosi processi di riconoscimento, valutazione e validazione delle competenze, e cioè di quello che il lavoratore ha appreso e ha imparato a fare. In tal senso, le Linee guida suggeriscono la realizzazione di un sistema di accreditamento – su base regionale e secondo standard omogenei condivisi a livello nazionale – di “valutatori/certificatori”, ad esempio i Fondi Interprofessionali.
Gli spunti delle Linee guida fluiscono da uno studio delle indicazioni europee in materia di politiche per la formazione continua, che da tempo sollecitano i Paesi membri della Unione Europea a muoversi in direzione di una valorizzazione degli esiti della formazione, piuttosto che dei suoi input, riconoscendo la complessità dei processi di apprendimento.
In altri termini, allontanandosi dalla vecchia concezione “cognitivista” della formazione, si è passati a valorizzare i diversi processi di apprendimento – formale, non formale e informale – che, nello stesso momento, concorrono allo sviluppo integrale e integrato di conoscenze, abilità e competenze della persona, in qualsiasi momento e in qualunque circostanza della vita. In tal senso, il lavoro e i luoghi del lavoro sono “legittimati” in quanto sedi dell’apprendimento, sia per i giovani ma ancor di più con riferimento al segmento della formazione continua per i lavoratori adulti.
Non sono, tuttavia, incoraggianti i risultati delle indagini europee sulla formazione continua, che mostrano, seppur con le dovute distinzioni nazionali, che in media l’investimento delle imprese in formazione si attesta ancora su livelli insoddisfacenti e che l’approccio continua ad essere fondato su una formazione di aula, separata dai momenti della produzione, piuttosto che una formazione complessa, in luoghi e tempi diversi, anche integrata alle fasi di lavoro.
Altro risultato deludente riguarda la probabilità che una persona sia coinvolta in processi di formazione, che cresce al crescere del livello di istruzione iniziale: ciò comporta il rischio che la formazione continua rappresenti una leva per polarizzare ancora di più la platea dei lavoratori, tra quelli molto qualificati e quelli poco qualificati, con le relative conseguenze in termini retributivi, ma anche di organizzazione del lavoro, produttività e, in ultima istanza, di competitività delle imprese.
Non tutti i Paesi nella Unione europea vantano un sistema di Fondi per la formazione continua; là dove siano presenti, i Fondi si differenziano per una diversa tradizione formativa, per un diverso grado di partecipazione alla progettazione della formazione, nonché per la natura – centralizzata o decentralizzata – della regolamentazione normativa sulla formazione. In generale, possono essere Enti bilaterali o trilaterali, settoriali o sntersettoriali, di diritto pubblico o aventi personalità giuridica propria. In ogni caso il fine che perseguono è comune: stimolare la formazione continua dei lavoratori tramite contributi finanziari di natura obbligatoria o facoltativa da parte del datore di lavoro o del lavoratore.
I Fondi per la formazione dei paesi analizzati – Francia, Inghilterra, Olanda, Spagna – seppur diversi per molti aspetti, condividono la sfida di non essere semplici “erogatori” di risorse economiche per la formazione, ma di proporsi quali gestori attivi del processo di formazione continua, immaginandolo come la leva strategica che avvicina un lavoratore a una impresa, nei diversi settori e nei diversi territori.

Il collegamento dei Fondi con il livello locale si rivela, infatti, un elemento strategico per la conoscenza dei fabbisogni professionali, la vicinanza alle imprese nella progettazione e gestione dei percorsi formativi, ma anche agli stessi lavoratori nella diffusione di informazioni e per l’accompagnamento nelle transizioni occupazionali.
Le significative evoluzioni degli ultimi anni che hanno interessato For.Te., devono essere incoraggiate affinché si riducano le distanze dalle indicazioni europee in materia di formazione continua, così come dalle best practices europee.
Ciò è stato evidenziato dai risultati dell’analisi dei formulari finanziati dal Fondo con l’Avviso 1/09, che rivelano una formazione solo di rado progettata per competenze, che si svolge molto più in aula che sul luogo di lavoro, che non valorizza a sufficienza la valutazione e gli “esiti dell’apprendimento”.
In primo luogo, la rilevazione ed analisi dei fabbisogni formativi riguarda il 53% dei casi analizzati, mentre dovrebbe essere un passaggio propedeutico ad ogni azione formativa.
Secondo, le aziende hanno richiesto finanziamenti per formazione finalizzata prevalentemente all’aggiornamento delle competenze dei dipendenti e per la competitività, ma solo in ragione del fatto che il mantenimento occupazionale è stato un obiettivo primario nella fase economica degli ultimi due anni.
Terzo, il 98,12% dei piani approvati prevede la formazione in aula, solo il 28% la modalità del training on the job, e l’e-Learning è ancora scarsamente utilizzato (13%); sarebbe pertanto auspicabile una maggiore integrazione tra apprendimento individuale, learning by doing, apprendimento collaborativo, apprendimento cooperativo.
Quarto, le modalità di attestazione sono legate alla presenza ai corsi di formazione più che al conseguimento delle competenze, e, di fatto, l’uso del Libretto formativo è ancora limitato.
Quinto, solo nel 25% dei casi si riscontra una formazione individualizzata, il che dimostra scarsa attenzione alla prospettiva che mette il discente al centro del percorso di apprendimento.

(III) Spunti di riflessione per l’evoluzione dei Fondi interprofessionali per la formazione continua e del Fondo For.Te. in particolare.
Alla luce delle Linee guida, della esperienza internazionale e comparata, e del rinnovato quadro giuridico-istituzionale, si possono trarre alcuni spunti per l’evoluzione strategica dei Fondi interprofessionali per la formazione continua e del Fondo For.Te. in particolare.
Secondo i possibili scenari tratteggiati nella seconda parte del Rapporto, in primo luogo, i Fondi si collocano quale baricentro del panorama di attori coinvolti nel mercato della formazione, ossia come veri e propri “cervelli” della formazione e non semplici intermediari tra le imprese e i lavoratori, da un lato, e gli erogatori della formazione, dall’altro lato.
Seguendo le indicazioni delle Linee guida, si potrebbe cioè immaginare che le risorse destinate alla formazione non siano limitate al finanziamento di attività formative, peraltro auspicabilmente sempre più dinamiche e non necessariamente legate a contesti d’aula, ma anche ad attività ad esse propedeutiche, come già oggi la legge consente.
Il Fondo potrebbe cioè avvalersi di due fondamentali leve. Primo, una robusta analisi dei fabbisogni professionali e formativi del settore, che potrebbe essere presa in carico dagli Enti bilaterali di settore, o direttamente dalle Parti sociali. Secondo, il supporto alla definizione degli standard professionali per la verifica degli esiti dell’apprendimento, che deriverebbe dai contratti collettivi di riferimento, in coerenza con quanto previsto dall’articolo 6, comma 2, del decreto legislativo n. 167 del 2011.
Inoltre, il Fondo si troverà a ripensare la logica di intervento settoriale o plurisettoriale, o anche territoriale, come suggerito dalle Linee guida in vista della necessità di sviluppare sinergie con le Regioni, per reperire risorse aggiuntive in una logica di cofinanziamento.
Terzo, con riferimento al “pacchetto anticrisi”, il Fondo può affiancare il sostegno al reddito, con gli strumenti che gli sono propri, cioè attraverso interventi formativi mirati, in una logica che coniughi misure di politica passive e attive per potenziare il settore e il singolo lavoratore, oltre che l’impresa.
Questa prospettiva richiede che l’investimento in capitale umano non consideri soltanto la realtà interna all’azienda, come finora in prevalenza è avvenuto; il perdurare di un atteggiamento “difensivo” anche nel futuro rischia di essere insufficiente per affrontare il continuo e dinamico cambiamento dei perimetri aziendali, a livello territoriale ma anche internazionale. Saper usare in modo flessibile la leva della formazione può rivelarsi una opzione strategica per la gestione delle risorse umane in azienda, con un occhio lungimirante al mercato del lavoro.
In tal senso, si può comprendere perché si chiede ai Fondi di investire in formazione anche per nuovi destinatari, che non versino il contributo dello 0,30%: il decreto legge n. 138/2011 apre alla formazione dei titolari di contratti di collaborazione in modalità a progetto e di contratti di apprendistato. Questo delicato passaggio presuppone nuove sinergie con il sistema degli Enti Bilaterali e con le Regioni.
Potenziando, secondo le direttrici qui sintetizzate, il ruolo e la portata delle attività del Fondo, si potrebbero raggiungere risultati notevoli in termini numerici, a partire dall’ampliamento della platea di potenziali imprese, ancora da raggiungere.
Il terziario di mercato conta 3 milioni di imprese attive (55% del totale), 15 milioni e mezzo di occupati (67% del totale) e il 50% del valore aggregato prodotto dall’economia rappresenta un settore fondamentale per il paese. La crisi economica e l’anemica ripresa deprimono la fiducia degli operatori e aumentano il turnover delle imprese del terziario di mercato. La formazione continua si configura quindi come asset strategico principale in questo settore. For.Te. copre il 36% delle adesioni a Fondi Interprofessionali provenienti dal terziario, la quota maggiore fra tutti i fondi esistenti, equivalente tuttavia al 5% delle imprese attive nel settore.
In questo processo, si raccomanda la cura della qualità del servizio che soggetti esterni potrebbero, come valutatore indipendente, riconoscere e accreditare come una sorta di “bollino blu”. Un altro spunto è consolidare la cooperazione con i consulenti del lavoro al fine di intercettare nuove realtà d’impresa.

Per concludere, oltre a quanto già rilevato nel rapporto sull’enorme e significativo lavoro svolto in positivo dal Fondo, una valutazione dell’operato di For.Te., alla luce delle Linee guida e dei recenti sviluppi normativi, esplicita e suggerisce alcuni ulteriori spunti strategici per innovare il modo di fare formazione in una ottica di consolidamento e rilancio di quanto sin qui fatto.
Il primo riguarda i formatori, in particolare le competenze e i requisiti ad essi richiesti e la necessità di competenze spendibili sul mercato del lavoro, supportate da una solida conoscenza del settore di riferimento e dei relativi mestieri. Va ripensato, in un’ottica di stretta collaborazione tra Fondi e Regioni, l’attuale sistema di accreditamenti; ciò anche alla luce di risorse pubbliche decrescenti. Un’ipotesi è che il Fondo promuova master o corsi di specializzazione e formazione per riqualificare il personale dei soggetti che si candidano a fare formazione tramite For.Te., con forme di certificazione concordati con le Regioni.
Il secondo è relativo alla formazione in azienda, ancora oggi poco praticata, anche in ragione di incertezze riguardo alle condizioni e ai requisiti che una impresa deve dimostrare di avere per essere ritenuta “formativa”. Il Fondo potrebbe contribuire ad agevolare l’acquisizione di strumenti operativi necessari per l’accesso al sistema di formazione per il terziario, in ottica promozionale e non sanzionatoria.
Allo stesso modo, sarebbe opportuno potenziare la formazione in modalità e-Learning, da intendersi non come vecchia “formazione a distanza” ma come metodologia didattica interattiva che avvicini discenti e docenti, facilitando la comunicazione e creando situazioni di apprendimento collaborativo e cooperativo.
Quarto spunto, il ruolo del tutor va ripensato per valorizzare la dimensione di “facilitazione” dello sviluppo di competenze. Il tutor può essere anche identificato, come talora già avviene, in figure professionali depositarie del “mestiere”: in questo senso, il Fondo potrebbe certificare la formazione di dipendenti e di ex dipendenti qualificati del settore, come tutor dei processi formativi.
Il quinto spunto vuole sottolineare l’importanza della verifica degli esiti dell’apprendimento, da realizzare nell’ottica delle competenze, abbandonando i metodi burocratici e formali basati sul controllo dei registri di presenza e delle ore di formazione.
In tal senso, in mancanza della piena operatività del Libretto formativo, For.Te. potrebbe proporre un modello di Libretto, avvalendosi delle pur limitate sperimentazioni delle Regioni.
Combinando gli elementi innovativi sin qui elencati, in una prospettiva di sviluppo virtuoso il Fondo deve diventare un cervello operativo, e non un mero intermediario di risorse; una struttura agile, che finanzi formazione basata su fabbisogni delle imprese e sugli standard professionali di settore, affidandosi a soggetti accreditati dal Fondo stesso per erogarla.