1. Risorse e strumenti di intervento
Il XII Rapporto sulla Formazione Continua 2010-2011, curato dall’ISFOL per il ministero del Lavoro, rileva che “il sistema di formazione continua in Italia, nelle sue dimensioni quantitative, va interpretato alla luce di un quadro articolato, in cui occorre considerare aspetti di carenza ormai strutturali e che finiscono per posizionare il Paese nel gruppo dei meno performanti rispetto agli investimenti formativi.”
Anche l’indubbia crescita delle adesioni ai Fondi interprofessionali del periodo 2008-2010, non cambia di molto la nostra posizione rispetto alle nazioni europee in cui la formazione continua e l’aggiornamento delle competenze sono storicamente più consolidati.
Secondo il Rapporto questi aspetti negativi affondano le radici sia nel mercato del lavoro, dove è ancora forte la richiesta di lavori con bassa specializzazione, sia in una forza lavoro con bassi titoli di studio che influisce sulla qualità e i contenuti dell’offerta di formazione. Si crea un circolo vizioso: inadeguati investimenti in qualità ed innovazione, soprattutto delle piccole imprese, determinano una bassa domanda di competenze che, a sua volta, non sollecita una diffusa e adeguata offerta formativa.
A questo problema si accompagna un sistema di sostegno e stimolo alla formazione continua molto frammentato, sia negli strumenti di intervento che nelle fonti di finanziamento. Da qui la sfida di integrare e concentrare le risorse disponibili che ammontano a circa 1 miliardo di euro l’anno, considerando Fondo sociale europeo, leggi nazionali (236/93 e 53/00) e Fondi interprofessionali. Se si calcolano anche gli interventi privati, le risorse salgono a circa 5 miliardi, ma la crescita della formazione continua nelle imprese sembra in questi anni dovuta soprattutto al ruolo svolto dai Fondi interprofessionali.
L’insieme di questi strumenti fa sistema solo in alcuni territori. Emerge quindi l’esigenza di coordinare i vari interventi per renderli più efficienti e articolati.
Il Rapporto mostra come le risorse italiane siano inferiori a quelle di Paesi a noi vicini: la Spagna ha disposizione con oltre 1,1 miliardi di euro gestiti dalla sola Fundación Tripartita , la Francia circa 2,3 miliardi gestiti dagli Opca e Opacif.
La crescita di risorse avvenuta in Italia negli ultimi cinque anni ha a che vedere soprattutto con la maggiore incidenza dei Fondi interprofessionali. Tuttavia gli investimenti in formazione continua rimangono pochi a confronto di quelli francesi, dove le sole imprese private investono oltre il 3% del proprio fatturato.
Il Rapporto segnala come l’obiettivo di migliorare le prestazioni del sistema della formazione continua abbia grande significato per lo sviluppo e per l’occupazione. A questo fine l’Italia deve incrementare la sue dotazioni, non solo finanziarie, anche per colmare i ritardi delle regioni meridionali e delle piccole imprese.
2. Il ritardo dei paesi del Mediterraneo
Il ritardo italiano rispetto alla funzione e diffusione della formazione continua è componente di un ritardo più generale che riguarda i Paesi europei dell’area del Mediterraneo.
Il confronto europeo considera sia la formazione formale che quella non formale, valutate secondo la Classification Learning Activity (CLA) delle indagini Eurostat. Per questa, la formazione formale comprende attività di apprendimento istituzionali che portano a certificazioni riconosciute all’interno del National Framework of Qualifications; la formazione non formale riguarda attività strutturate di apprendimento che non rientrano nel NFQ; la formazione informale comprende attività non istituzionalizzate, realizzate su iniziativa personale in qualsiasi luogo e a qualsiasi titolo. La formazione continua riguarda essenzialmente i primi due tipi di formazione.
Se consideriamo i valori medi di partecipazione degli adulti (25-64 anni) ad attività di formazione formali e non formali, si determina una graduatoria fra i Paesi europei che il Rapporto fa dipendere da:
- un livello di supporto pubblico con forme di finanziamento diretto e/o tramite servizi;
- l’intervento delle Parti sociali nella gestione delle risorse;
- la distribuzione e gestione delle risorse su base territoriale (regionale o provinciale);
- l’integrazione e lo scambio fra i processi formativi.
In fondo alla classifica troviamo alcuni Paesi mediterranei con valori al di sotto della media Ue per la partecipazione sia ad attività formali che non formali: tra questi l’Italia, la Grecia e la Turchia.
In posizione intermedia troviamo due gruppi di Paesi: la Polonia, l’Irlanda e il Portogallo, con uno scarso ricorso ad attività non formali e una quota di partecipazione ad attività formali superiore alla media; il Lussemburgo e la Spagna, con un livello basso di attività formali, ma oltre la media per quelle non formali. Entrambi i gruppi presentano caratteristiche molto simili: bassa qualificazione della popolazione e relativamente bassa competitività del sistema produttivo. I Paesi con livelli di partecipazione sopra la media Ue, per le attività formative formali e non formali, sono: Austria, Norvegia, Regno Unito e Svezia, con livelli di partecipazione equilibrata fra le due attività; Slovenia e Olanda, con un investimento maggiore per le attività formali; Danimarca e Svizzera, dove l’investimento maggiore è per le attività non formali e presenta notevoli aspetti di innovazione.
Se consideriamo il numero di mesi impegnati in attività formativa durante l’arco della vita lavorativa, il Rapporto rileva che:
- in Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia, un lavoratore arriva a dedicare quasi un anno intero ad attività formative, mentre in Germania si avvicina ai nove mesi;
- dedicano quattro mesi alla formazione i lavoratori statunitensi e inglesi e poco meno i polacchi e i coreani;
- i lavoratori italiani, greci e turchi superano di poco un mese di formazione.
Va notato come un forte investimento e una maggiore diffusione della formazione continua riguardino soprattutto realtà nazionali con politiche attive del lavoro molto consistenti, caratterizzate spesso da un approccio di tipo universalistico. Possiamo trovare sistemi a base pubblica o sistemi misti, oppure legati all’autoregolazione delle imprese; in ogni caso la formazione continua fa parte integrante dei modelli di promozione sociale e di welfare per il lavoro.
I dati mostrano, secondo il Rapporto, come “un’elevata produttività del lavoro non sia legata alla durata del tempo di lavoro, quanto alla possibilità di disporre di organizzazioni aziendali efficaci, di una forza lavoro formata adeguatamente e di un sistema di servizi alle imprese efficiente; tutti elementi che premiano proprio quei Paesi che hanno una minore durata media di ore di lavoro”.
Negli anni della crisi rischia dunque di allargarsi il divario fra i Paesi dell’area mediterranea e quelli come, Germania e Regno Unito, che considerano la formazione continua come una leva strategica con funzione anticiclica.
3. Le regioni italiane nel quadro europeo
Per avere un quadro completo della situazione italiana è importante valutare la partecipazione degli adulti alle attività della formazione formale e non formale nelle diverse regioni italiane.
Il benchmark europeo viene infatti misurato anche su base territoriale ed in Italia i modelli, gli investimenti e le performance regionali sul lavoro e sulla formazione sono significativamente diversi tra loro. L’analisi rende chiara la relazione tra le caratteristiche del tessuto produttivo su base regionale e il comportamento rispetto alla formazione.
Si evidenziano due aggregati: da una parte le regioni meridionali, con tassi poco elevati di formazione non formale, non a caso più legata al mercato del lavoro e ai processi di innovazione, e tassi maggiori di formazione formale; dall’altra le regioni centro-settentrionali con valori opposti. Situazioni intermedie sono riscontrabili nel Lazio, la Sardegna, la Valle d’Aosta, le Marche: tranne quest’ultima, che ha un tessuto industriale solido, sono regioni con una forte presenza del terziario legato anche alla pubblica amministrazione, realtà socio-economiche in transizione, fuori da una condizione di arretratezza, ma con difficoltà specifiche, quali il livello di disoccupazione o la scarsa propensione verso l’export.
Nessuna regione italiana, nel 2010, si è avvicinata al benchmark europeo: un dato che peggiora quello precedente, già negativo, con sole quattro regioni italiane su venti superiori alla media europea. Osserva il Rapporto che “ la presenza più significativa della formazione formale nelle realtà meno sviluppate del Sud esprime un bisogno di apprendimento che continua a incanalarsi troppo spesso su un’offerta di formazione standard e disallineata rispetto al tessuto produttivo”.
Questo sarebbe il motivo che spinge molti giovani del Sud a perfezionare il proprio percorso di apprendimento, anche di tipo non formale, laddove la formazione garantisce reale connessione con le caratteristiche del sistema produttivo. Si alimenta così l’offerta di competenze e conoscenze specializzate nei territori già sviluppati del Nord. Una sorta di “ immigrazione per le competenze “che costituisce un aspetto, peraltro poco analizzato, del processo di trasferimento dei giovani nelle regioni italiane.
Se si analizza la formazione continua secondo i livelli di responsabilità in impresa, o nelle attività in proprio, si rileva che per i dirigenti, i quadri e i libero professionisti la formazione di tipo formale assume un valore residuale, mentre è rilevante per i ruoli che prevedono specifici obblighi formativi, come gli apprendisti, e per le figure all’inizio del percorso professionale, come i collaboratori. Si tratta quindi, secondo il Rapporto, di incrementare la partecipazione ad entrambe le tipologie di formazione continua, considerando che, in un sistema socio-economico consolidato e dinamico, il ruolo della formazione non formale tende a crescere. Il differenziale di performance e di efficacia del mercato del lavoro tra i sistemi regionali italiani i può valutare anche attraverso questo punto di osservazione.
4. Domanda di competenze e formazione continua nelle imprese italiane
La rilevazione Excelsior di UnionCamere e del ministero del Lavoro mostra tendenze che riguardano l’andamento del nostro mercato del lavoro, la richiesta di competenze e la domanda di formazione continua delle imprese. Nel 2010 il 33,5% delle imprese ha dichiarato di aver svolto corsi di formazione per i propri addetti: poco più che nel 2009 e in forte aumento rispetto al 2008 (25,7%). La crisi ha portato le imprese ad intervenire in primo luogo con la leva della formazione, anche se i dati del 2011 mostrano come l’ approccio si sia rivelato in alcuni casi tardivo rispetto all’emergenza occupazionale.
La propensione ad attuare formazione è direttamente correlata alle dimensioni dell’impresa. Il Rapporto sulla formazione continua 2010-2011 rileva che la probabilità di ricevere formazione in un’impresa con più di 500 dipendenti sia quasi tripla (85,1%) rispetto a quella con meno di 10 dipendenti (29,4%). Il comparto più attento al processo formativo si conferma quello dei servizi pubblici con una media del 55,7% ( 45% l’anno precedente). L’intero terziario supera l’industria in senso stretto, con una quota di imprese che fanno formazione del 33,7% sul totale, contro il 28,9% dell’ industria. Ricorrono di più alla formazione continua le industrie chimiche, farmaceutiche e petrolifere (49,7%), elettriche, elettroniche, ottiche e medicali (43,2%), quelle di macchinari e attrezzature e di mezzi di trasporto (38%). Dove le imprese necessitano di maggiore innovazione e di dinamiche competitive più forti, la formazione è più presente.
Fra i servizi l’investimento in formazione più elevato si ha in quelli finanziari e assicurativi (70,8%), seguiti da sanità, assistenza sociale e servizi privati (47,8%), servizi alle persone (45,7%), servizi informatici e delle telecomunicazioni. Anche le costruzioni, con il 37,5%, sono in netta crescita rispetto agli anni precedenti (30,1% nel 2009), superando industria e servizi. L’edilizia sembra considerare qualificazione delle competenze e specializzazione delle attività come condizioni necessarie per uscire dalle difficoltà di mercato indotte dalla crisi.
Si conferma, secondo il Rapporto, “una netta propensione all’investimento in formazione da parte di imprese operanti in settori ad elevata specializzazione e contenuto tecnologico o a maggiore intensità di conoscenza, accanto ai quali si ritrovano comparti (ad esempio quello dei prodotti ottici o medicali) in cui rivestono un enorme peso i processi di aggiornamento e formazione continua delle forze di vendita, solitamente erogati dall’azienda”.
In settori chiave del Made in Italy, troviamo una bassa percentuale di industrie che fanno formazione continua per i propri dipendenti: tessile, abbigliamento e calzature sono al 18,8%; beni per la casa, il tempo libero e altro manifatturiero al 18,4%; industria del legno e del mobile al 21,5%.
Resta molto bassa la propensione alla formazione nella ristorazione e nei servizi turistici in genere (21,8%). L’inadeguata attenzione alle competenze ed alla qualificazione del personale, del prodotto e del servizio, in ambiti che segnano l’ identità della nostra economia, si presenta come fattore di rischio e di indebolimento.
Tra i dati positivi, va sottolineata una diffusa crescita delle attività di formazione in tutte le aree geografiche della penisola, con la conferma del primato del Nord-Est (36,3% delle imprese) seguito dal Nord- Ovest (34,4%). Sotto della media nazionale il Centro (32,9%), e il Sud e le Isole (31%), in netto miglioramento rispetto ai valori precedenti.
Sono diverse le strategie di approccio nell’acquisizione di nuovo personale e nella creazione di nuove competenze: da una parte, imprese che prevedono assunzioni di personale senza esperienza specifica, dall’altra, imprese che segnalano la necessità di interventi formativi per i neoassunti. Il 53,6% delle imprese si orienta a richiedere personale senza esperienza; valore che sale al 55,2% per le microimprese e si abbassa al 39% per quelle con oltre 50 lavoratori. Le imprese di minore dimensione preferiscono assumere personale non strutturato, in grado di adattarsi con maggiore facilità a condizioni di lavoro peculiari. Se si guarda alle imprese che svolgono formazione per i neoassunti, si va dal 57,2% di microimprese al 92,8% di imprese con più di 50 lavoratori.
Le imprese più piccole, segnala il Rapporto, “trasferiscono le conoscenze ai neo-assunti essenzialmente attraverso modalità di affiancamento non strutturato, non sempre auto-percepito e contabilizzato come processo di formazione compiuto dagli stessi titolari d’impresa”. Ciò pone certamente un limite al loro processo di qualificazione.
Interessante è la distinzione per settori. I servizi di pubblica utilità presentano la minore percentuale di imprese che prevedono assunzioni di personale inesperto (39,7%) e la maggiore di imprese per cui è necessario formare i neoassunti. Un’elevata previsione di fabbisogno formativo per i nuovi lavoratori si riscontra anche nell’industria in senso stretto (64,9%). Le industrie chimiche, farmaceutiche e petrolifere, fortemente coinvolte in innovazioni di processo e di prodotto, presentano la più bassa propensione verso personale inesperto (40,7%) è il più alto fabbisogno di formazione (81,3%).
Il Rapporto conferma che il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da una domanda di professionalità dove “da una parte vi è una concentrazione di richieste di profili di basso livello, soprattutto nei servizi, spesso tradizionali, in cui le persone sono necessariamente coinvolte in processi di formazione interna e con modalità di training on the job, legati alla specificità del ruolo proposto; dall’altra vi è la richiesta di figure tecniche altamente specializzate, in cui viene erogata una formazione esterna e ad elevato contenuto tecnico”.
Per questo ragione, le figure intermedie sembrano pagare di più il processo di strutturazione del sistema produttivo su scala globale. Coinvolgere le figure intermedie, i professional ed i lavoratori flessibili nei processi di formazione continua diventa quindi un obiettivo importante, per evitare che questi, importanti negli anni prima della crisi, siano esclusi dal mercato del lavoro futuro.
5. I Fondi paritetici interprofessionali
Nel biennio 2010/2011 i Fondi paritetici interprofessionali (che sono ormai venti) hanno impegnato negli Avvisi pubblici circa 640 milioni di euro. Dal 2004 le risorse impegnate negli Avvisi sono 1,8 miliardi di euro. Sono stati promossi Avvisi con tematiche specifiche e relative a processi di innovazione delle imprese. Non più Avvisi solo dedicati alla crisi economica e al recupero di competenze dei lavoratori svantaggiati. Per le microimprese rimane prioritario l’interesse per i voucher. Crescente è la tendenza all’utilizzo del Conto formazione.
Le imprese aderenti risultano 740 mila e sono oltre la metà della platea potenziale (55,8%), mentre i dipendenti, oltre 7,8 milioni, raggiungono il 66%. La mobilità delle imprese tra i Fondi ha riguardato oltre 57mila unità, circa l’8% delle aderenti.
Si abbassa la dimensione media delle imprese di circa 3 dipendenti: da 13 a 10,7. Le imprese da 1 a 9 unità sono il principale serbatoio dei Fondi: intorno all’83%. Riguardo alla ripartizione per settore, si assiste a un certo grado di specializzazione dei Fondi, in parte dovuto alle caratteristiche del mondo associativo di riferimento.
Circa la aree, il Nord annovera il 60% delle imprese e il 65% dei lavoratori. Sud e Isole avanzano di due punti, passando al 25,2% di adesioni col 13,6% di lavoratori.
Tra il gennaio 2010 e il giugno 2011, i Fondi hanno approvato 19.400 piani formativi per un totale di 95 milioni di ore di formazione, destinate a 1,9 milioni di partecipanti e 61mila imprese. L’88% dei lavoratori ha partecipato a Piani aziendali o interaziendali. Il costo totale dei Piani supera i 910 milioni. Le imprese hanno contribuito per il 37% in media. Oltre il 42% ha un costo compreso fra i 10mila e i 50mila euro, il 39% non supera i 10mila euro. Il costo orario medio non supera i 9,6 euro.
Su un campione di oltre 8mila Piani monitorati e conclusi , gli accordi fra le Parti hanno riguardato il livello aziendale nel 66% dei casi. Le Rsu hanno sottoscritto accordi nel 45% dei casi. Le finalità dei Piani hanno visto al primo posto il Mantenimento/aggiornamento delle competenze (43%), e la Competitività di impresa/Innovazione ( 30%). Rispetto agli anni precedenti, la Formazione in ingresso scende dal 17% all’8%, mentre la Mobilità esterna, outplacement, ricollocazione aumenta dallo 0,4% al 14,7%.
L’incidenza territoriale dei Piani approvati è in linea con la distribuzione geografica delle adesioni. In testa la Lombardia con il 26,9%, seguita dal Veneto col 19,7%, l’Emilia Romagna con il 15,7% e il Piemonte col 11%. Lazio e Toscana si collocano all’8,5% e al 6,2%. Tra le regioni meridionali il Campania si attesta al 4,1% e la Sicilia al 3,5%: su valori più bassi le altre.
Fra le tematiche formative Salute e sicurezza è al 28% ( in calo rispetto al passato). Competenze trasversali come Sviluppo delle abilità personali, Lingue e Informatica riguardano, nel complesso, il 34% delle partecipazioni. Gestione aziendale (risorse umane, qualità, ecc) e amministrazione è al 15,2%.
La metodologia di apprendimento più usata è l’aula nell’82,3% dei casi. Training on the job è all’8,3%, rotazione delle mansioni e affiancamento al 4,1%.
Il 41,9% delle attività si conclude senza certificazione. Il 28,7% con dispositivi di certificazione forniti dall’organismo attuatore o dal Fondo (contro un precedente 39,2%). Certificazioni riconosciute da terzi coinvolgono il 29% dei partecipanti. Prevalgono quelle in Informatica e Lingue straniere (16,7%), mentre dispositivi di certificazione regionali, e rilascio di brevetti o patentini, ammontano al 11% circa.
I lavoratori in formazione con contratto a tempo indeterminato sono il 74%. L’11% è con contratto a tempo determinato, o con rapporto di lavoro parziale (9,5%). Al 3,7% sono gli “atipici”, gli apprendisti sono lo 0,4%.
La classe d’età compresa fra i 35-44 anni copre la quota del 38,4%, seguita dalla fascia 25-34 anni col 28,1% e dai 45-55enni col 24,1%. Diplomati e laureati rappresentano quasi la metà dei beneficiari; quelli con licenza media il 27,6%, con qualifica l’8%. Quanto all’inquadramento professionale, il 46% sono impiegati amministrativi e tecnici, il 20% sono figure apicali (quadri, impiegati direttivi, dirigenti), altrettanti sono operai generici o qualificati.
Più coinvolte nella formazione sono, col 33,8%, le imprese con oltre 250 dipendenti ( corrispondono allo 0,5% delle adesioni). Le medie imprese, da 50 a 249 dipendenti, partecipano nella misura del 24,7%. Quelle al di sotto dei 50 dipendenti sono il 41,5%: tra esse le microimprese, da 1 a 9 dipendenti, raggiungono il 18,6%.
Nel periodo gennaio 2010-giungo 2011, l’11% dei Piani formativi è stato approvato nelle regioni Obiettivo Convergenza (Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, Basilicata). Anche in queste regioni si manifesta una netta prevalenza dei Piani aziendali, e non si registrano scostamenti rispetto al quadro nazionale per le finalità e le aree tematiche. I dati confermano una maggiore problematicità di intervento nelle regioni meridionali, dovuta a un minore coinvolgimento dei soggetti interessati e a “un’assenza di specificità nella qualità degli interventi”. Andrà valutato nel tempo l’impatto degli sforzi di alcuni Fondi a favore di specifiche iniziative per le piccole e micro imprese del Sud.