Il salto di qualità del livello delle competenze in Italia dipende anche dalla capacità dell’offerta formativa di corrispondere alle vocazioni produttive locali. Non basta una mera registrazione dei fabbisogni: il nostro sistema economico fatto di reti e filiere, di piccole imprese e di consorzi deve non solo riconoscere e rilevare, ma anche contribuire a qualificare la domanda delle imprese, soprattutto quelle di minore dimensione.
Il recente Rapporto Isfol 2012 conferma che i sistemi produttivi locali rispondono alla crisi anche in riferimento a un’offerta formativa più o meno adeguata. Il mercato del lavoro italiano varia da territorio a territorio e l’insediamento delle imprese è condizionato anche dalla presenza o meno di competenze idonee. Si parla di “ interazioni cognitive” per intendere quello scambio di conoscenze, competenze, informazioni e soluzioni che permette a un territorio, a un distretto di imprese di reagire alle dinamiche dei mercati.
Il punto è duplice : evidenziare la connessione tra innalzamento delle competenze dei lavoratori e rafforzamento della capacità competitiva di imprese e territorio e stimolare le scelte dei sistemi produttivi locali perché si indirizzino sul connubio tra innovazione e conoscenza. Le ricerche svolte in questo periodo di crisi testimoniano di un livello di innovazione delle imprese italiane contraddittorio e non del tutto adeguato alle necessità ed alle prospettive. Più del sessanta per cento delle imprese, ad esempio, ha un ufficio di progettazione ed design, ma sono poche le imprese che puntano a brevettare l’innovazione ed i risultati della progettazione svolta. È un limite “ culturale “ che va affrontato con decisione, nella consapevolezza che la difesa delle posizioni sul mercato discende anche dalla tutela dei progetti e dei prodotti innovativi. Va considerata anche l’eterogeneità delle imprese , tipica dei nostri distretti e legata alla dimensione : secondo Isfol, più del 78 per cento delle imprese medio grandi ha, negli ultimi tre anni, investito nel capitale umano, contro poco più del 17 per cento di microimprese. E’ una differenza che si spiega solo in parte con il numero degli addetti e che è sintomo di debolezza e scarsa fiducia. Nelle imprese che investono meno per il capitale umano ci sono, non a caso, anche minori investimenti in controlli di qualità.
In generale, le imprese lamentano scarsa disponibilità di operai specializzati esperti, e solo le imprese di maggiori dimensioni e leader di filiera cercano manager e dirigenti con alte competenze. Una distinzione sembra emergere netta: più le imprese crescono in dimensione più richiedono competenze, mentre le imprese più piccole cercano soprattutto personale con esperienza.
Più crescono di dimensione, più le imprese tentano di brevettare i propri progetti e prodotti e più puntano alla collaborazione con gli istituti universitari ed i centri di ricerca. Tuttavia anche le imprese medio piccole riconoscono l’importanza di reti di impresa che si appoggino su centri di ricerca e su un rapporto solido con le università e con l’ alta formazione.
Resta ancora insoddisfacente, secondo tutte le imprese, l’attenzione alla domanda in termini di fabbisogni. Così non è nei settori legati alla produzione di beni e servizi di qualità, dove i risultati sono buoni. Emergono, soprattutto nelle piccole imprese, una certa resistenza al cambiamento ed un’insufficiente propensione all’innovazione, che la crisi ha accentuato. Va infine sottolineato come, anche in Italia, sia sempre più forte la connessione tra crescita dell’innovazione tecnologica, competenze trasversali (problem solving e capacità di lavoro in gruppo, in primo luogo) e coinvolgimento decisionale dei lavoratori.